Bob Dylan manca dai palchi della Penisola da quasi tre
anni, da quando, nel novembre 2015, chiuse il tour dell'anno al prestigioso
Teatro degli Arcimboldi di Milano con due date. Una scaletta statica per
entrambe le serate: vecchi e nuovi classici alternati a standard della musica
tradizionale americana firmata Frank Sinatra. Una scaletta che ha visto un
Dylan indossare i panni dal crooner
anni '40 al folksinger, tra il bluesman e il gangster, con picchi di tragica
teatralità, fino allo spietato giocatore d'azzardo newyorkese e l'amante ferito
dal dolore e dalla sofferenza. Infatti, infiniti sono i volti, i nomi, i ruoli,
che con il tempo gli sono stati dipinti addosso: cantautore di protesta,
cantante folk, rock, country, blues, reazionario, innovatore, cristiano, ebreo,
profeta, messia, ma lui ha sempre rifiutato ogni definizione ed etichetta.
All'alba delle sue settantasette primavere Dylan sta portando per il mondo il Never Ending Tour, il noto Tour Senza Fine (dopo le date europee,
suonerà in estate nel paese del Sol Levante, il Giappone), che quest’anno
festeggia il trentesimo anniversario. Non sappiamo quale sarà la scaletta che
alternerà nel corso del tour, né quello che possiamo aspettarci da ogni singola
esibizione. Abbandonerà del tutto i pezzi di Sinatra? Tanti si chiedono, a gran
voce, se è davvero finita questa sbornia per il cantante di My Way. Chi lo sa. Di certo è evidente la
sua empatia, che sprizza da tutti i pori, quando interpreta magistralmente una Autumn Leaves, brano del 1945 che allude
chiaramente all'età che avanza con una forte nostalgia per i vecchi amori e del
tempo che fu. Un Dylan che fa il conto con gli anni, cosciente come mai che “i tempi” e "le cose sono cambiate". Lo sente sulla pelle ormai
emaciata dalla rughe del tempo, dall’autunno della vita: “Da
quando sei andata via le giornate si sono allungate. Presto sentirò la vecchia
canzone dell'inverno. Ma mi manchi più di tutto mia cara. Quando le foglie
d'autunno iniziano a cadere”. Canta così, con la
lancinante umanità che lo ha sempre contraddistinto. Autumn Leaves tocca uno dei momenti culmine, uno degli apici di
quel concerto di chissà quale luogo e di chissà quale tempo nel suo Never Ending Tour. Già, Dylan, il poeta
onorato del Premio Nobel alla Letteratura
2016, ha saputo reinventarsi ancora. E c'è da dire che gli accademici di
Svezia sono stati perspicaci. Ci hanno visto lungo. Il riconoscimento “Per aver creato nuove espressioni poetiche nella
grande tradizione della canzone americana” è proprio il leitmotiv che Dylan sta ancora
tracciando attraverso il fil rouge
della sua immensa opera. Dylan ha saputo darsi ancora un nuovo volto e
oltrepassare quel traguardo. Nel giro degli ultimi quattro anni ha pubblicato
ben tre album di covers di Sinatra. Addirittura l'ultimo album (Triplicate, 2017) è un triplo. Questa
capacità di rendere la reinterpretazione di un pezzo, e farlo totalmente suo, è
la vera svolta, e, questo vale pure per i suoi classici, proposti adesso dal
vivo con un nuovo arraggiamento, in perfetto Sinatra mood.
Le liriche di Autumn
Leaves, scritte dal celebre Jacques Prévert, scorrono come un fiume in
piena nella sala da concerto e non c'è discrasia o alcun imbarazzo tra un testo
così onesto, che non è stato scritto di proprio pugno, e quella voce che esce sincera
come non mai. È l'immersione totale in queste liriche così dense di tradizione
e nostalgia che un profano potrebbe tranquillamente scambiarle per un suo
vecchio pezzo originale che non canta ormai da anni. È questo l'estremo lavoro
che ha fatto magistralmente Dylan, sull'orlo di una vecchiaia che comincia pian
piano ad accettare, ma, che come nel binomio Nietszche-Wagner, o che si voglia
Schopanhauer, anch'egli, staccatosi dal suo “educatore”, è libero; sempre sulla
strada e sempre avanti nel tempo. “Non
parlo, soltanto cammino. Quel ponte brucerò, prima che tu possa passare”
canta in Ain’t Talkin’. Dylan sta
ancora percorrendo quella strada che lo ha portato lontano dalla sua città,
Duluth nel remoto Minnesota, fino a New York, per diventare quello che è
diventanto. Dylan sta ancora tracciando quella strada e adesso sta arrivando in
città. Domani sera sarà a Roma all'Auditorium Parco della Musica. Forse è
ancora in cerca di qualcosa, come quando a Roma giunse per la sua amata,
l'italoamericana, Suze Rotolo, e qua scrisse per lei due dei suoi più grandi
capolavori: Girl From The North Country
e Boots Of Spanish Leather. Forse è
ancora per stada per non venir meno a quel patto che strinse con il Capo quando
tutto cominciò. Forse perchè lui è Bob Dylan e ce l’ha detto da un bel po’ di
tempo: «Non sono io che ho creato Bob
Dylan. Bob Dylan è sempre esistito e sempre esisterà».
Bentornato in Italia, Bob!
Alberto Romagnoli