lunedì 2 aprile 2018

Il ritorno di Bob Dylan in Italia: nove concerti per il Premio Nobel che non ne vuol sapere di invecchiare


Bob Dylan manca dai palchi della Penisola da quasi tre anni, da quando, nel novembre 2015, chiuse il tour dell'anno al prestigioso Teatro degli Arcimboldi di Milano con due date. Una scaletta statica per entrambe le serate: vecchi e nuovi classici alternati a standard della musica tradizionale americana firmata Frank Sinatra. Una scaletta che ha visto un Dylan indossare i panni dal crooner anni '40 al folksinger, tra il bluesman e il gangster, con picchi di tragica teatralità, fino allo spietato giocatore d'azzardo newyorkese e l'amante ferito dal dolore e dalla sofferenza. Infatti, infiniti sono i volti, i nomi, i ruoli, che con il tempo gli sono stati dipinti addosso: cantautore di protesta, cantante folk, rock, country, blues, reazionario, innovatore, cristiano, ebreo, profeta, messia, ma lui ha sempre rifiutato ogni definizione ed etichetta. All'alba delle sue settantasette primavere Dylan sta portando per il mondo il Never Ending Tour, il noto Tour Senza Fine (dopo le date europee, suonerà in estate nel paese del Sol Levante, il Giappone), che quest’anno festeggia il trentesimo anniversario. Non sappiamo quale sarà la scaletta che alternerà nel corso del tour, né quello che possiamo aspettarci da ogni singola esibizione. Abbandonerà del tutto i pezzi di Sinatra? Tanti si chiedono, a gran voce, se è davvero finita questa sbornia per il cantante di My Way. Chi lo sa. Di certo è evidente la sua empatia, che sprizza da tutti i pori, quando interpreta magistralmente una Autumn Leaves, brano del 1945 che allude chiaramente all'età che avanza con una forte nostalgia per i vecchi amori e del tempo che fu. Un Dylan che fa il conto con gli anni, cosciente come mai che “i tempi” e "le cose sono cambiate". Lo sente sulla pelle ormai emaciata dalla rughe del tempo, dall’autunno della vita: Da quando sei andata via le giornate si sono allungate. Presto sentirò la vecchia canzone dell'inverno. Ma mi manchi più di tutto mia cara. Quando le foglie d'autunno iniziano a cadere”. Canta così, con la lancinante umanità che lo ha sempre contraddistinto. Autumn Leaves tocca uno dei momenti culmine, uno degli apici di quel concerto di chissà quale luogo e di chissà quale tempo nel suo Never Ending Tour. Già, Dylan, il poeta onorato del Premio Nobel alla Letteratura 2016, ha saputo reinventarsi ancora. E c'è da dire che gli accademici di Svezia sono stati perspicaci. Ci hanno visto lungo. Il riconoscimento “Per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana” è proprio il leitmotiv che Dylan sta ancora tracciando attraverso il fil rouge della sua immensa opera. Dylan ha saputo darsi ancora un nuovo volto e oltrepassare quel traguardo. Nel giro degli ultimi quattro anni ha pubblicato ben tre album di covers di Sinatra. Addirittura l'ultimo album (Triplicate, 2017) è un triplo. Questa capacità di rendere la reinterpretazione di un pezzo, e farlo totalmente suo, è la vera svolta, e, questo vale pure per i suoi classici, proposti adesso dal vivo con un nuovo arraggiamento, in perfetto Sinatra mood.


Le liriche di Autumn Leaves, scritte dal celebre Jacques Prévert, scorrono come un fiume in piena nella sala da concerto e non c'è discrasia o alcun imbarazzo tra un testo così onesto, che non è stato scritto di proprio pugno, e quella voce che esce sincera come non mai. È l'immersione totale in queste liriche così dense di tradizione e nostalgia che un profano potrebbe tranquillamente scambiarle per un suo vecchio pezzo originale che non canta ormai da anni. È questo l'estremo lavoro che ha fatto magistralmente Dylan, sull'orlo di una vecchiaia che comincia pian piano ad accettare, ma, che come nel binomio Nietszche-Wagner, o che si voglia Schopanhauer, anch'egli, staccatosi dal suo “educatore”, è libero; sempre sulla strada e sempre avanti nel tempo. “Non parlo, soltanto cammino. Quel ponte brucerò, prima che tu possa passare” canta in Ain’t Talkin’. Dylan sta ancora percorrendo quella strada che lo ha portato lontano dalla sua città, Duluth nel remoto Minnesota, fino a New York, per diventare quello che è diventanto. Dylan sta ancora tracciando quella strada e adesso sta arrivando in città. Domani sera sarà a Roma all'Auditorium Parco della Musica. Forse è ancora in cerca di qualcosa, come quando a Roma giunse per la sua amata, l'italoamericana, Suze Rotolo, e qua scrisse per lei due dei suoi più grandi capolavori: Girl From The North Country e Boots Of Spanish Leather. Forse è ancora per stada per non venir meno a quel patto che strinse con il Capo quando tutto cominciò. Forse perchè lui è Bob Dylan e ce l’ha detto da un bel po’ di tempo: «Non sono io che ho creato Bob Dylan. Bob Dylan è sempre esistito e sempre esisterà».
Bentornato in Italia, Bob!


Alberto Romagnoli


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